MATRIMONIO IN CRISI

di Federico Canziani

Si apprende dai telegiornali, giornali e rotocalchi che il matrimonio, nel senso generico ma definito del termine, è in crisi. Nell’ambito di questa crisi viene specificato che tra le unioni matrimoniali realizzate prevalgono quelle celebrate in comune rispetto a quelle in chiesa. Su quest’ultima constatazione vale la pena spendere un minimo di riflessione, ma dopo.

Non entro in merito ai risvolti psicologici e materiali che una unione legale implica nel contesto della vita di coppia, alle prospettive di vita dei singoli individui coinvolti e riguardo la più o meno privazione delle reciproche libertà.

Il matrimonio, secondo la concezione occidentale a noi familiare, nasce come vincolo coronato e caratterizzato, in chiave spirituale, dalla legittimazione delle dottrine cattoliche nello specifico e cristiane in generale.

Il primo miracolo di Gesù Cristo si compie in occasione delle nozze di Cana e ben noto è il divino enunciato che chissà se correttamente interpretato recita: “L’uomo non separi in terra ciò che Dio ha unito in cielo”.

Questa magnifica visione di un tempo dell’unione tra uomo e donna va ora a cozzare contro il frenetico e progressivo sviluppo delle società, contro il progresso della tecnologia, delle economie, degli impegni lavorativi, contro l’insieme dei motivi che rendono l’esistenza sempre più appetibile e distraente oltre che insopportabile per la sua velocità, contro società e vivere comune meno capaci di garantire spazi di paziente riflessione, contro la compulsiva ricerca di soluzioni immediate, meno dolorose e più convenienti.

In sostanza il matrimonio non conviene più e se può convenire come moda o “status symbol”, necessita dell’antidoto ad azione immediata, cioè di una legge che ne permetta l’epilogo nella maniera meno dolorosa possibile e di un’altra legge che ne realizzi la morte programmata in breve tempo: quindi legge sul divorzio, approvata! legge sul divorzio breve, approvata!

Il secondo punto, che poi era quello di partenza, è l’analisi sulla predilezione da parte dei futuri sposini dell’unione civile in comune rispetto a quella “sacramentaria” in chiesa.

Qui si intromette fondamentalmente la componente psicologica rispetto a quella, forse marginale, di natura economica.

Il matrimonio in chiesa, ahimè, è paragonabile alla partecipazione domenicale ai sacri riti della Messa. La stragrande maggioranza del popolo, riempie le navate dei templi cattolici per consuetudine, per apparenza, possiamo dire quasi per superstizione come è testimoniato dallo scambio del segno di pace quasi sempre preceduto e poi seguito dai più feroci atteggiamenti di odio, insulto, indifferenza in palese antitesi con il significato del gesto di riconciliazione.

Quanta gente ascolta veramente il Vangelo e l’omelia che il prete racconta dal pulpito, per poi metterla in atto anche solo in minima parte, nella vita a seguire?

Il matrimonio civile in comune è preferito perché più rapido, più economico, psicologicamente non gravato dalla solennità dei contenuti dottrinali irreversibili abbattuti come una spada sui promessi sposi.

Per coloro che non sono animati da vera fede cristiana, significa potersi unire senza il rischio di dover poi sottrarsi ad una promessa fatta di fronte ad un Dio nel quale forse nemmeno si crede ma che pur sempre costituisce un vincolo di superstizione duro da sciogliere e il cui rinnegamento rischia di compromettere in modo più grave e solenne la propria immagine agli occhi degli altri.

Il matrimonio in generale e quello religioso in particolare, da gesto puro, spiritualmente sincero e spontaneo, si è trasformato in dovere sociale abbastanza tollerato con la prospettiva, salvo auspicabili cambiamenti, di essere sostituito da nuove forme sociali che solo le scienze sociologiche e il tempo potranno ben definire.

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